Ci chiamavano Monzichiari…

di Mauro Berruto

19/03/2010

Mauro Berruto Mauro Berruto
Mauro Berruto
Ci sono delle storie che sono belle da raccontare proprio come facevano i cantastorie di una volta: narrando e cantando le immagini.
Le immagini che raccontano questa stagione e scorrono davanti ai miei occhi sono così tante che vale la pena raccontarle, provando a descriverle tanto con le parole quanto con il cuore, nelle speranza di esserne capace.
La prima immagine è d’estate. C’è il sole per 20 ore in Finlandia e mi arrivano telefonate su telefonate. “Abbiamo venduto 10 giocatori su 13. Il budget è ridotto del 50%. Ci stai?”
Nella seconda immagine è settembre, ad Istanbul. Io sono seduto sulla sedia a rotelle, questa volta sono io a telefonare. “Mauro, restiamo a Montichiari. Mauro, andiamo via. Mauro, restiamo. Mauro, andiamo”
La terza immagine è al PalaGeorge, io ho le stampelle e guardo un gruppo di ragazzi che si allenano con … ferocia. E penso: “stai a vedere che …magari…”
La quarta immagine è una cena, sta per iniziare il campionato. Il mio Presidente si siede vicino a me e mi dice piano: “Andiamo via, andiamo a Monza”. Io capisco che lui un po’ soffre e un po’ guarda nel futuro. Come sempre, guardando più lontano di tutti noi.
La quinta immagine è la nostra prima gara in “casa”. Monza. Noi che viviamo a Montichiari e facciamo le partite in casa come quelle in trasferta. Pulman. Ritiro. Allenamento del mattino sul campo di gioco. Nell’immagine ci sono due squadre in campo: la nostra e quella di Cuneo. Sugli spalti ci sono pochissime persone. Ma ci sono i tifosi di Cuneo. Alcuni tifosi di Montichiari seduti di fianco a quelli di Cuneo. Dall’altra parte i tifosi che vogliono la pallavolo a Milano. Noi vinciamo e i miei giocatori alla fine … cercano un pubblico da applaudire e non sanno dove guardare.
La sesta immagine è un venerdì mattina a metà novembre. Siamo nel parcheggio del PalaGeorge e stiamo partendo per Macerata. Le nostre macchine sono parcheggiate lì cariche di valigie, perché al ritorno ci trasferiremo a vivere a Monza. C’è Marcello Gabana quella mattina. Non è mai venuto a salutarci prima di partire. Quella mattina è lì. Ci sorride, sale sul pulman. “Mi raccomando. Massima grinta”.
La settima immagine è dentro lo spogliatoio di Macerata. “Marcello è morto. E’ caduto il suo elicottero”.
L’ottava immagine è un foglio bianco. Vuoto. Esattamente come ci siamo sentiti noi.
La nona immagine è dentro una chiesa. C’è una bara con un pallone e una maglietta appoggiata sopra. Due ore dopo il funerale ci dobbiamo allenare. L’unico allenamento di quella settimana. Ci fanno giocare a Macerata, il calendario lo “impone”. Ci alleniamo al PalaGeorge, dentro ci sono soltanto i due pali e la rete. Il PalaGeorge è un vascello fantasma. Non c’è neanche una sedia dove appoggiare la borsa. Niente. I due pali, la rete e noi che ci alleniamo e invece avremmo solo voglia di piangere.
La decima immagine è di nuovo a Macerata. Giochiamo dopo una settimana in cui l’unico allenamento fatto è quello descritto sopra. Giochiamo una partita mostruosa, davanti alla telecamere. Lottiamo come non era neanche immaginabile fare. Sfioriamo il tie break. Perdiamo. E questa squadra mi conquista definitivamente, perché dimostra di avere un carattere immenso. Dopo pochi giorni viene a trovarci Giulia, la figlia di Marcello. Lei è il nostro nuovo Presidente. Dice poche parole, esattamente quelle che servono: “Marcello credeva tantissimo in voi. Tutti gli impegni presi con voi verranno rispettati”.
Dopo queste dieci immagini c’è un’altra storia. Quella di una squadra che si allena e che suda ogni giorno, che cresce, che migliora, che si diverte, che gioca in alcuni momenti una pallavolo meravigliosa. C’è una squadra di ragazzi che giocano l’uno per l’altro. C’è una squadra che trova la sua identità e ne diventa sempre più gelosa ed orgogliosa. Ci sono 9 vittorie consecutive, ci sono partite di livello tecnico e agonistico da stropicciarsi gli occhi. C’è un pubblico che passa da 380 dell’inizio ai 3800 di domenica scorsa. Ci sono i piccoli gesti quotidiani, il piacere di andare in palestra e gli occhi iniettati di sangue il giorno della partita, le urla di gioia, gli abbracci di Exiga che salta addosso ai suoi compagni.
Dopo le dieci immagini e la storia c’è un’altra immagine. E’ di nuovo bianca. Però stavolta è bianca perché bisogna ancora scriverci sopra.
Il finale è ancora misterioso, come in tutte le storie affascinanti.
Ma sui titoli di coda, quando scorreranno ci saranno i nomi di un gruppo di persone straordinarie che mi porterò dentro fintanto che sarò capace di ricordare.
14 uomini. Non giocatori di pallavolo. Uomini. Che di fronte a difficoltà che avrebbero spaccato la schiena a chiunque hanno avuto la capacità di andare in un’unica direzione: avanti.
Il mio staff, che è capace di farmi essere quello che posso essere. Persone straordinarie, senza le quali nulla di quello che è successo e succederà sarebbe potuto succedere.
Giulia. La nostra Presidente. Che nonostante tutto siamo riusciti a far sorridere e sognare. Questo resterà il nostro successo più bello.
Alla fine una cosa sarà certa: ci chiamavano Monzichiari, oggi siamo l’Acqua Paradiso Monza. Nel nome di Marcello.

Mauro Berruto
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