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Giocare per Vincere e Giocare per Salvarti
Giocare per Vincere e Giocare per Salvarti
di Simone Serafini
09/05/2012
Giocare per vincere. Per vincere un trofeo, uno scudetto, un campionato qualsiasi. Giocare per essere i primi, essere i più forti in quella categoria, dal campionato del mondo al trofeo parrocchiale, essere i migliori in quel momento. Vincere ti regala delle sensazioni uniche, ti senti come se hai conquistato una cima inesplorata prima degli altri. Soddisfatto, appagato, picchi di autostima non misurabili. Quando giochi per vincere qualcosa, è per dimostrare agli avversari e al mondo intero che sei il più forte, il migliore, per ricevere gli onori, stimato da tutti come un cavaliere medievale che vinceva il torneo. Ma…
Ma quando però giochi per non retrocedere, per salvarti, cambia tutto. Diventa lotta per la sopravvivenza. Il gioco si contorna di sfumature diverse. Mors tua, vita mea. Contorni drammatici, gladiatori nell’arena, chi vince ha salva la vita, chi perde perde la vita. È la paura di non farcela che pervade il tuo gesto ma proprio perché non hai ritorno ti spingi oltre i tuoi limiti. Non giochi per dimostrare agli altri, per cercare la gloria imperitura. Giochi per te stesso, per la tua squadra, per quel senso naturale di spirito di sopravvivenza, motivazione atavica che spinge da sempre l’essere umano, e spinge ogni essere animale. D’altronde la salvezza pervade la nostra storia, in ogni ambito. Dalla salvezza fisica a quella dell’anima, meta di ogni religione. E quando ti salvi, non provi le stesse emozioni di aver vinto un trofeo. Come sollevato, ti sei tolto il peso della “fine” incombente, del non ritorno dagli inferi (serie inferiore), ti senti quasi come “rinascere” perché hai un futuro a cui guardare, pronto a una nuova sfida (la prossima stagione).
Da sportivo, inteso qui non come persona che vive di sport giocato ma spettatore di sport, di tutti gli sport, esteticamente pervaso dalle sensazioni che lo sport ti offre, mi mancherà il fascino della corsa alla salvezza in serie A1 maschile. Mancheranno quelle sfide fatte più con il cuore che con la tecnica o la tattica, dove la differenza può farla veramente l’ars pugnandi (in senso sportivo sempre), dove la drammaticità (nel senso greco-teatrale) è protagonista e non solo chi “combatte”, ma anche gli spettatori sono pervasi dall’emozione particolare che anima il giocare non per vincere, ma per sopravvivere. Sarà che nasco laziale veramente nel giugno del 1987, io adolescente, la Lazio del -9 in serie B, che si salvò dal baratro prima all’ultima giornata contro il Vicenza (gol del compianto Giuliano Fiorini a 7 minuti dalla fine) e poi con gli spareggi a Napoli contro Taranto e Campobasso. Ricordo lo stadio strapieno colmo di speranza prima, di sfiducia poi, di liberazione infine. Ricordo il fiume di macchine ininterrotte dei tifosi laziali che accompagnarono e supportarono la squadra per sopravvivere, per non cadere in serie C che avrebbe significato disastro non solo sportivo ma anche societario. La passione della gente laziale fatta di paura di cadere, paura di sprofondare. La vittoria liberatoria che assicurò il futuro, festeggiata forse più dello scudetto del 2000. E ai laziali veri, se chiedi quale è la cosa che ricordano di più a livello di pathos, tutti risponderanno “l’anno del meno 9, gli spareggi per non andare in C”. Personalmente da sportivo, mi mancherà tutto ciò nella prossima serie A1 maschile.
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