La mia finale e quella dell'Itas Diatec

di Mario Bortot

22/06/2010

Mario BortotMario Bortot
Mario Bortot
Premessina. Trento poteva (già) entrare nella leggenda del volley mondiale. Ma un giro d’aria piemontese e qualche volo di troppo a zonzo per l’Europa a nervi tesi, hanno fatalmente chiuso la porta dorata in faccia ad uno squadrone improvvisamente ridimensionato.
Non so come mai, ma mi ritrovo a scrivere di volley. L’ultima volta che lo feci nemmeno la ricordo. Sicuramente c’era ancora il mio caro babbo (cui rivolgo questo pezzo), e – mi pare - eravamo usciti depressivamente dai playoff, con Piacenza credo. A quel tempo la maglia sociale, come tante altre, sfoggiava un candore pettorale temporaneo da “zero tituli” e di questo ne sono certo (salvo forse una coppetta “telefonica” (TIM) lagunare non appuntata a livello toracico).
Nel tempo che non ho fatto giornale, né frequentato palazzetti (e manco volley-pensato) la maglia Itas si è rapidamente riempita di agognati feticci tricolorati e il bachecone sociale arricchito di concreta e pregiata “coppaggina”, anche europea. Nel medesimo lustro “sabbatico”, in realtà è successo di tutto: hanno cancellato e ripristinato i treni rapidi da Trento per Roma, sono esplosi vulcani un po’ ovunque, caduti governi e crollati speroni di Dolomiti Pusteresi, e perfino abbiamo attraversato una epocale crisi economica e di consumi arricchita, si fa per dire, da crolli a domino di banche “juessei” fatte di cartapesta subprime. E la povera Grecia, nonostante le Olimpiadi, a differenza dei trucchi, si vede ma – economicamente - non c’è più.
Il volley è invece rimasto intatto, immanente. E con esso Andrea Cobbe, “benedettino” tecnologizzato della carta stampata e webbaiolo spinto, che a maggio – generis causa – mi ha agevolato per un auto-invito al super-carapace di Casalecchio, tempio del basket (?) (dalla retina alla rete, una tantum), per la “partita delle partite”: Trento-Cuneo, battaglia senza appello per lo scudetto tricolore, con 8500 e passa umani a sfogarsi. “Vengo e ti scrivo un pezzullo”, questo l’accordo. (Trento ha perso 3 a 1, per dovere di cronaca).
Affrancato da tempo dal “regime” redazionale dei quotidiani, che impone ai cronisti trentini nei giorni di gara, di stramazzare verso la mezzanotte dopo aver compilato a testa bassa (unici al mondo) cinque/sei/ anche sette pagine di giornale, ho così deciso – intenzionalmente - di lasciar trascorrere un congruo numero di settimane per meditare al meglio su ciò che avevo visto. Una libertà e una libidine indescrivibili e inebrianti: scrivere più in là, quando capiterà, senza stress da rotativa e da caposervizio ululante, alla barba del lavoro che fu (e che non sarà mai più...): tanto i pezzi, una volta scritti, restano e raccontano comunque di ciò che uno vuole trovare scritto. Al punto che si possono rileggere n volte.
Nel frattempo allora mi sono svagato pure e mi sono letto diverse robette, perfino “L’uomo che pesava i cani” del “quasi “Gadda” Maurizio Milani, che nella mia personalissima graduatoria viene prima della Divina Commedia, ma alla pari con fette elittico-traversali di Strolghino di Culatello, accompagnate da sorsate di Gattinara “Tre Vigne” nonché leggendo passi qualunque dello semi-sconosciuto “Gli amori impossibili” di Calvino (Salume, Vino, Volume)... ho mescolato un po’.
Dicevo del lasso temporale di oltre un mese: eventuale controindicazione, potrebbe sottolineare qualche lettore, è il rischio affievolimento della memoria: hai visto bene ma poi ci racconti male. Per noi che non c’eravamo è un danno. Ma quella patologia non mi tocca dato che – ad oggi – ricordo ancora i colori di otto automobiline ricevute all’età di 1,5 anni (zia Norma) oltre all’intera poesia del Carducci “Davanti a San Guido” (quella dei cipressi in duplice filar…zona “Sassicaia”, per gli amanti del vino che costa) sinaptizzata “appena” 30 anni fa, 15,5 anni dopo le automobiline. Alcuni appunti di gara (spesso illeggibili) li ho comunque raccolti rannicchiato come un piccione nel sottotetto tecnologico del “Futurshow”: una traccia incerta che mi aiuterà a tenere il timone a dritta.
Glisso su voti, statistiche, tattiche e percentuali (disponibili a josa su Google) e propongo un paio di “quadretti” fisici: se tu indossi l’armatura di ferro e salti sul destriero con troppa foga cadi dall’altra, di brutto, e ti fai del male. Se poi diversi energumeni spingono un ariete contro il portone umbonato di un maniero e, dall’altra, un bliz prima del “crash”, i nemici sfilano il chiavistello e spalancano i battenti cosa succede loro? Finiscono tutti a terra, rovinosamente (e qualche incisivo salta).
A Casalecchio, dal mio punto di vista, è successa una cosa del genere: quel primo set conquistato energicamente da Trento a suon di muri, ace, schiacciate multiflavors eccetera, con giocatori terminator concentrati e cattivi di brutto ha prodotto un dispendio di forze altissimo. Non serviva. Ha generato uno super-consumo fisico: tipo raccogliere l’insalata con la trebbiatrice.
E dall’altra? Zero. C’era una squadra arretrata, bloccata, passiva, spettatrice, inerme, forse spaventata... ma risparmiosa. La sfuriata di Trento, infatti è costata cara, anzi carissima. Dopo aver solcato l’Europa diverse volte e saturi di stress, i “soldati” di Stoytchev, ora nel catino ipertecnologico e roboante di Casalecchio, paiono d’un tratto armature vuote e svuotate di energie, anche mentali. Caduti da cavallo, i giganti, si rialzano e ricadono a ripetizione: oltretutto il caldo umido non fa bene alle partite secche.
Cuneo si fa coraggio e sfodera perfino i pallonetti (adoro quelle parabole all’antica che, per un po’, riconducono il gioco al rallentatore) per ulteriormente beffarsi del muro trentino e per spezzare il ritmo di una improbabile rimonta. E nel bollente palazzone tecnocratico appenninico, tra suoni di tromba (non le vuvuzelas, per carità, ma un gruppo cinetico di professionisti dei fiati) e leggiadre canzonette più o meno azzeccate sparate a 10.000 watt (cifra a caso, ma forse giusta), dove il giallo (tifosi trentini) prevale sul blu (tifosi cuneeesi) per 3 a 2 ma non fa risultato, prende corpo – palla su palla – il sogno cuneese: agguantare il primo tricolore di sempre.
La partita, sentimento comune, si incanala verso una direzione irreversibile: il silenzio inconsueto sugli infiniti e gialloidi spalti trentini è eloquente, mentre la security (omaccioni abbronzati dentro abiti neri, che in Israele se li sognano) si sparpaglia ai bordi del campo con le spalle al gioco e tiene d’occhio gli spalti che si perdono verso gironi sempre più alti. Attenzioni inutili, probabilmente, dato che le uniche mini-risse del volley (solo verbali) che io ricordi risalgono ai derby della via Emilia quando ci si spintonava al bar dopo il quarto e penultimo set per una piadina + birra.
Un dettaglio musicale. Sul 18 a 16 per Cuneo al quarto set, quando Trento doveva provare a rientrare in partita ad ogni costo, gli altoparlanti lanciano la Giuni Russo sulle note di «Quest’estate ce ne andremo al mare... per le... vaaaa-caaan-zeeeee...». Vissotto, brasiliano amante di onde, sabbia e sole, accusa il colpo. Dopo una stagione da incorniciare, fatta di fatiche e trofei, con Cuneo che già balla sugli spalti, stregato dalla Giuni visualizza i riflessi dorati del suo ooceano. E’ la fine. Ci si trascina, rassegnati fino alla bomba finale di Nikolov e sul campo, in un attimo, è festa Granda.
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