Vincere remando

di Simone Serafini

20/02/2012

Vincere remando
Parallelismo sportivo interdisciplinare. Nel weekend due incontri con tante analogie nei loro sviluppi, nei loro andamenti, e nei loro finali. Trento che vince la finale di Coppa Italia in tal maniera mi ha riportato a più o meno a 24 ore prima quando, comodamente seduto sul divano, avevo assistito (e tifato, non nascondo di essere appartenente al club “Federiani Convinti della Prima Ora”: tantissime gioie condite da alcune cocenti e ancora brucianti delusioni) alla semifinale tennistica del torneo di Rotterdam tra appunto Roger Federer e un risuscitato Nikolaj Davydenko. Ci si starà chiedendo cosa accomuna il campione svizzero con la racchetta alla migliore squadra di club del pianeta Terra di volley. Sicuramente l’andamento del punteggio. Entrambi sotto, la vittoria è arrivata in rimonta. Ma non solo, perché ambedue sull’orlo del baratro più di una volta. Federer in svantaggio di un set e sotto di un break nel secondo, poi a metà del terzo e decisivo parziale 0-40 sul proprio servizio. Trento doppiata in maniera abbastanza netta e con un abisso da recuperare (18-13), con Macerata apparentemente padrona del campo. Ma non è propriamente l’evoluzione dei match a far somigliare le due vittorie. È stata la capacità di Trento e Federer di aver saputo “remare”. Nei circoli di tennis delle mie parti si dice così quando sei in difficoltà, quando l’avversario in quel momento sta giocando meglio di te. E a te non entra proprio nulla, non riesci a fare il tuo gioco, i tuoi colpi, a esprimere quello che solitamente ti riesce con facilità, il tuo marchio di fabbrica. C’è un unico modo per provare a uscirne vincitori. Cominciare a remare. Aggrapparsi al match con ogni mezzo, anche a quello che non ti appartiene. L’inerzia della partita ti sta portando lontano dalla meta, le acque sono agitate. Si fa fatica, tanta. Anche e soprattutto a livello mentale, perché devi giocare in un modo non tuo, non consono, non sei abituato. Provare a “remare” forte e aspettare che le acque si calmino, passi la buriana, il vento torni a favore per ricominciare a usare le proprie armi. Federer e Trento nel weekend hanno remato. Mai avevo visto il tennista svizzero, dotato di una classe cristallina, l’estetica del tennis, mettersi a remare. Lui che solitamente gioca ogni colpo provando a trovare una soluzione vincente, che nella testa disegna sempre trame offensive, contro il robot russo che sparava palline a ripetizione tipo flipper ha remato. Non riuscendo a imporsi, ha giocato scambi in pura difesa, ha subito, ha dovuto aspettare che a Davidenko finissero le pile. E ha portato a casa il successo. Così Trento. Anche per via di una Macerata extralusso, ha accusato e non imposto il gioco. Ha subito nei primi due set, imbrigliato con le sue stesse risorse (battuta e attacco) dai marchigiani. Non essendo in grado di seguire il suo solito canovaccio (grande regolarità nell’ex cambio palla, frutto di un arsenale d’attacco da porto d’armi, che ti dà la serenità per poter forzare il servizio e trovare i break), ha dovuto soffrire, rincorrere, aggrapparsi al muro e difesa, giocarsi ogni scambio come se fosse l’ultimo. Soprattutto combattere contro il tuo stesso sentimento di sapere che non stai giocando come potresti. Ma la grandezza di Trento (e di Federer) è stata proprio qui. Accettare di dover remare ogni singolo momento del match, con costanza e con umiltà. E, a mio parere, successi così sono ancora più belli.
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